Un film di grande intelligenza soprattutto visiva e gestuale.
Premio Ettore Scola per la Miglior Regia Bif&st 2023, L’uomo senza colpa è un’opera bilingue che comunica soprattutto con i silenzi.
Nei sobborghi sloveni di Trieste, Angela ha perso il marito Andrea a causa di una malattia da esposizione all’amianto e sa che alla sua amica Elena, anche lei vedova, toccherà la stessa fine. Sogna la parola slovena – lingua madre del marito che, scopriamo più avanti nel film, in verità si chiama Andrej Rusič – che sta per “polvere” ripetersi in una litania quasi liturgica. Nella casa di riposo per la quale lavora, un’anziana donna le raccomanda di “non perdere la testa” perché “una volta persa, non si ritrova più“.
La scoperta che il costruttore per cui il marito lavorava, responsabile della mancata messa in sicurezza del luogo di lavoro e, di conseguenza, della morte di tanti suoi lavoratori, ha avuto un ictus che ne ha compromesso le facoltà motorie e verbali la spinge a introdursi nella vita dell’uomo, accudito dal figlio, con l’obiettivo, forse, di vendicarsi. Accetta, così, di farsi sua infermiera personale e di stabilire con lui un rapporto, che si fa via via più intimo fino alle estreme conseguenze erotiche. L’odio diventa amore? Impossibile dare una definizione a sentimenti che il film, con grande finezza drammaturgica, ci restituisce mobili, cadenzati da un accento di pietas, di apertura alle più diverse modulazioni affettive.
L’uomo senza colpa: dopo la non fiction, un altro studio sul corpo e i suoi confini
L’uomo senza colpa è un film che, nei titoli di coda, chiede giustizia per le migliaia di persone che ogni anno muoiono perché sviluppano malattie respiratorie, spesso oncologiche, causate dall’esposizione alle fibre d’amianto. Tuttavia, non è un film civile. Teso, poetico, ma di una poeticità smorzata, mai lirica, a vocazione potentemente esistenzialista, porta in scena un incontro: quello tra una donna che sta elaborando un lutto e l’uomo che, per quel lutto, è responsabile. Recitato un po’ in un italiano insabbiato di triestino e un po’ in sloveno, comunica soprattutto nel silenzio, attraverso il linguaggio non verbale delle tensioni e degli spasmi corporei, delle sovrapposizioni di movimenti – controllati, irriflessi, quasi sempre bruschi e persino rabbiosi, si tratti di rabbia rattenuta o esplosiva – dei due protagonisti.
Il regista, nato nei pressi di Gorizia nel 1977, è da sempre interessato allo studio del sé nel e con il corpo: qualche anno fa ha realizzato Dancing with Maria, un documentario intorno all’uso terapeutico della danza da parte di Maria Fux, una ballerina e insegnante argentina che ha piegato tecniche e grammatiche del linguaggio coreutico all’integrazione di persone con disabilità e all’accoglimento del limite corporeo e dei suoi impensati varchi. Nell’opera a lei dedicata, Maria Fux si trova, infatti, a misurarsi non solo con la missione ‘inclusiva’ portata avanti tutta una vita, ma anche colla ‘caduta’ del suo stesso corpo. Anche qui, in questo film, c’è una donna – interpretata dalla straordinaria Valentina Carnelutti – che è un corpo esposto a corpi: quello menomato di un paziente e il suo stesso, oggetto, nonostante la mortificazione inflittagli dal dolore, di desiderio altrui, non solo passivamente accolto o offensivamente respinto. Nello spazio di interazione e di scontro, nelle intermittenze di percezioni e sentimenti, tra questi due aggetti – le sporgenze, il di più che sempre i corpi rappresentano per noi e con cui così a fatica ci identifichiamo e disidentifichiamo – si genera il discorso più alto della rappresentazione filmica di Gergolet: la porosità dei confini, non solo tra popoli – Trieste è per l’appunto città di frontiera, terra di contaminazione culturale tra genti slave, latine e germaniche –, ma anche tra i principi morali opposti del bene e del male, della colpa e dell’innocenza.
L’uomo senza colpa: conclusione e valutazione
L’uomo senza colpa si rivela, dunque, un film di grande intelligenza soprattutto visiva e gestuale: la scrittura dei dialoghi è, infatti, più dimessa e meno efficace rispetto alla ‘partitura del silenzio‘, realizzata con esiti di estrema eloquenza. Accostarvisi richiede attenzione nel suo senso etimologico: la disponibilità a una partecipazione non precipitosa, silente e devota nella fede a un disegno artistico superiore, quello che, soltanto alla fine, dischiude le sue simmetrie e il suo senso ultimo. Gli attori, privati del ‘verbo’, compiono un viaggio di ritorno alla radicale nuclearità della loro esperienza di animali invischiati nella civiltà e, così, anche la colpa scivola, dal piano morale, edificazione degli uomini al confronto con valori condizionati dalla cultura, nella dimensione più autenticamente affettiva. Solo in questa terra di puro sentire, la rabbia dei personaggi per ciò che hanno perduto – la salute, l’amore, l’identità – può trasformarsi in una comprensione profonda della fallibilità e transitorietà proprie dell’umano, primo passo, questa, verso l’accettazione del limite proprio e altrui e verso un’indulgenza che nulla ha a che fare con la passività o la sconfitta. Soltanto nello svaporare del male e dei suoi contorni che si pretenderebbero assoluti, è possibile raggiungere una qualche forma di salvezza. O anche solo una pace provvisoria. Sia essa nella morte o in una vita che continua, e, nel corpo, comprende la sua necessità.
Fonte: cinematographe