Solo Dio perdona
Sin dai primi fotogrammi sui quali sono impresse le immagini di un prologo visivamente suggestivo, magnetico, evocativo e accattivante, si capisce quanto la componente estetico-formale e la regia siano due fattori chiave e qualitativamente caratterizzanti per un esordio come L’uomo senza colpa. Qualità che si vedrà essere espressa tanto nella messa in quadro e nella confezione in generale quanto nella scrittura. Quella firmata da Ivan Gergolet, cortista e documentarista di vecchia data, sarà anche un’opera prima, ma la maturità che ha dimostrato di avere nel proprio DNA sia dal punto di vista narrativo che estetico è innegabile e ben al di sopra della media nazionale. Non è un caso che il film si sia aggiudicato il Premio Ettore Scola per la Miglior Regia alla 14esima edizione del Bif&st nella sezione “ItaliaFilmFest”, dopo avere ben figurato in quel di Tallin in una vetrina importante come il festival estone Black Nights, laddove meno di qualche mese fa si è tenuta l’anteprima mondiale. Nel mezzo del suo tour festivaliero, che farà tappa in altre prestigiose kermesse come quella di Sofia, la pellicola del cineasta di Monfalcone si affaccerà nelle sale italiane a partire dal 6 aprile, distribuito da Transmedia Production, per provare a togliersi anche lì qualche soddisfazione. Noi ce lo auguriamo, perché riteniamo L’uomo senza colpa un film meritevole di attenzione per i contenuti dei quali si è fatto portatore sano, oltre che per il modo in cui è riuscito a veicolarli.
Ambientato a Monfalcone e nei suoi sobborghi di lingua slovena, L’uomo senza colpa racconta la storia di Angela, una vedova di 50 anni che ha perso il marito a causa dell’amianto. Quando l’uomo responsabile di quelle morti rimane paralizzato, la donna accetta l’offerta del figlio di diventare la sua badante. Per lei è l’inizio di un viaggio in un doloroso passato e nella tragedia della sua perdita. Attraverso le maglie fitte e strette di una trama che attinge dalla cronaca e dai numeri spaventosi di una “guerra invisibile”, Gergolet cuce insieme i fili narrativi di un thriller-drama a sfondo ambientale che punta tutto su una tensione febbrile che sale e scende, sul faccia a faccia e sui rapporti di dipendenza reciproca che si vengono a creare tra vittima e carnefice, sulle atmosfere ansiogene che si respirano per l’intera durata e sulle emozioni cangianti sulle quali l’autore prova a fare leva per coinvolgere e stimolare lo spettatore di turno rispetto ai temi rilevanti al centro del plot. Per farlo il cineasta parte, anzi finisce, con i dati che spiegano il perché dell’opera, cosa l’ha generata e l’ha alimentata. Come ricordato dai cartelli che precedono l’inizio dei titoli di coda si parla infatti di 125 milioni di persone sono esposte all’amianto sul posto di lavoro e le complicazioni derivanti da questa esposizione mietono circa 100.000 vittime all’anno. Il tutto mentre il pericoloso materiale è ancora in una zona grigia dal punto di vista legale. Ciò di fatto, molto di più dell’essere umano, fa proprio dell’amianto il vero “cattivo” della situazione, come era stato a suo tempo per un’altra importante e pregevole opera prima come Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio.
Il carnefice invisibile e letale resta dunque lo stesso, cambiano semmai i protagonisti che loro malgrado ne sono state vittime. Perché tutti nel caso di L’uomo senza colpa sono a loro modo delle vittime. Nel film di Gergolet entrano per uno strano scherzo del destino in rotta di collisione prima in una terapia intensiva di un ospedale, poi tra le mura di una villa a picco sul mare, dove si consumano i round silenziosi ma fisicamente impattanti (vedi la scena della fisioterapia in piscina) tra le figure che quel destino ha voluto fare incontrare a distanza di anni. Tutto ruota e si sviluppa intorno a un incontro/scontro tra le parti, a un percorso di accettazione e un altro di perdono che non è detto che vadano a buon fine. L’arco narrativo del film vede questi due percorsi intrecciarsi, generare corto-circuiti emotivi fortissimi, dei quali i bravissimi interpreti chiamati in causa sono gli inneschi e i detonatori sullo schermo, a cominciare da una Valentina Carnelutti straordinariamente in parte e credibile, che regala al personaggio di Angela una molteplicità di sfumature, tante verità e un livello di intensità altissimo. È lei l’altro valore aggiunto di un film che ha forse nell’eccessiva durata rispetto alle reali esigenze narrative la sola nota stonata.
ARTICOLO DI Francesco Del Grosso
Fonte: CineClandestino